Presidenzialismo, stabilità di governo e Stato efficiente.
Negli ultimi 20 anni l’Italia ha avuto 11 diversi governi. Una instabilità che ci indebolisce nei rapporti internazionali e che penalizza gli italiani, perché governi che durano così poco non hanno una visione di lungo periodo, ma cercano solo il facile consenso nell’immediato. Anche per questo da decenni l’Italia cresce meno della media europea. L’instabilità politica è anche uno dei principali fattori del nostro declino economico. Assicurare governi stabili, grazie al presidenzialismo, non è una misura astratta: è la più potente misura economica di cui necessita l’Italia.
Riforma presidenziale dello Stato, al fine di assicurare la stabilità governativa e un rapporto diretto tra cittadini e chi guida il governo. Attuazione virtuosa di federalismo fiscale e autonomie, con completa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e corretto funzionamento del fondo di perequazione, per assicurare coesione e unità nazionale. Trasferimento dei poteri a Roma Capitale, con risorse, competenze e status giuridico in linea con le principali capitali europee. Valorizzazione del ruolo degli enti locali e tutela delle specificità montane e insulari.
Pari dignità tra Pubblica amministrazione e cittadino. Digitalizzazione dei procedimenti della PA e possibilità di concludere le pratiche online per imprese e cittadini. Obbligatorietà del “programma e degli obiettivi di efficientamento misurabile” nel Piano integrato di attività (Piao) delle amministrazioni. Efficientamento della PA. Delegificazione, deregolamentazione e semplificazione del linguaggio amministrativo, con riduzione degli oneri per cittadini, famiglie e imprese. Implementazione del ricorso al partenariato pubblico-privato. Istituzione di tutor pubblici per l’accompagnamento burocratico all’avvio di attività artigianali e commerciali. Rigore nella tempistica dei pagamenti dei contratti pubblici, nel rispetto della media europea. Riconoscimento di un rating positivo alle imprese che rispettano tempistiche e condizioni contrattuali negli appalti pubblici. Semplificazione nell’affidamento degli appalti e maggiori controlli in fase di esecuzione. Piena, completa e immediata compensazione di debiti e crediti nei confronti della Pubblica amministrazione.
FOCUS
Negli ultimi venti anni la Francia ha avuto quattro capi di governo, figura che coincide con il Presidente della Repubblica. Il Regno Unito ha avuto cinque Primi Ministri, la Germania tre soli Cancellieri. L’Italia vanta invece ben undici Presidenti del Consiglio.
Per quanto riguarda il modello francese, al quale la nostra proposta si avvicina molto, è bene chiarire un aspetto preliminare. In Francia esiste il Primo ministro, su proposta del quale il Presidente della Repubblica nomina gli altri membri del Governo, ma le redini del potere esecutivo sono tenute dal Presidente della Repubblica stesso, come chiaramente disposto dall’articolo 9 della Costituzione, che così dispone: “Il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei ministri”. A ulteriore riprova di ciò, il rappresentante della Francia nei vertici intergovernativi è sempre il Presidente della Repubblica, che siede al tavolo dei Capi di Governo in occasione del G7 o del Consiglio Europeo.
Assistiamo quindi a una situazione in cui, a fronte della stabilità governativa dei maggiori Stati europei, il tratto che ci contraddistingue è la costante instabilità, che nel corso degli anni ha manifestato più e più volte i suoi effetti deleteri. Basti pensare a questa legislatura che ha visto alternarsi ben tre Governi diversi.
Questa instabilità penalizza l’Italia, per la scarsa credibilità che possiamo vantare nei rapporti con gli altri Stati. E penalizza gli italiani, perché Governi di così breve durata non esprimono una visione di lungo periodo, ma ricercano solo il facile consenso nell’immediato. Anche per questo, dal 2000 al 2019, l’Italia è cresciuta meno di chiunque altro in Europa, solo del 4%; nello stesso periodo Francia e Germania sono cresciute ben più del 20%.
L’instabilità politica è uno dei principali fattori del nostro declino economico. Il presidenzialismo non è una misura astratta, è la più potente misura di sviluppo che serve all’Italia. Introdurremo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica e un sistema che dia stabilità al Governo. Un sistema istituzionale all’altezza di una grande nazione occidentale come l’Italia, per tornare protagonisti in Europa e nel mondo, per tornare a investire sul nostro futuro, per tornare a crescere e prosperare.
Nella legislatura che sta per concludersi, Fratelli d’Italia ha presentato alla Camera, l’11 giugno 2018, una proposta di legge (C. 716) per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica a prima firma Giorgia Meloni, a testimonianza di come questo tema rappresenti uno dei tratti maggiormente distintivi della nostra proposta politica. È una battaglia storica di Fratelli d’Italia e della destra italiana, che riguarda l’efficienza dello Stato e della nostra democrazia, la capacità decisionale del potere politico e la necessità che il Presidente della Repubblica sia il fulcro dei rapporti tra le istituzioni non per editto ma perché dotato di reali poteri. Un Presidente che possa essere, secondo un certo modello di presidenzialismo, Capo dello Stato e Capo del Governo, che ne diriga la politica e che possa prendere decisioni e non semplicemente invocarle. Un Presidente eletto dal popolo potrebbe incarnare meglio di chiunque altro queste necessità, per l’autorevolezza che gli deriverebbe dalla legittimazione ricevuta direttamente dagli italiani, con piena e completa attuazione del principio della sovranità popolare.
Al seguente link è possibile trovare il testo della proposta di legge sull’elezione diretta del Presidente della Repubblica:
http://documenti.camera.it/leg18/pdl/pdf/leg.18.pdl.camera.716.18PDL0015210.pdf
Di seguito, invece, una sintesi di quanto prevede la nostra proposta di legge, con le attribuzioni del Presidente della Repubblica secondo il nuovo modello istituzionale.
La proposta di legge intende modificare gli articoli da 83 a 89, da 92 a 96, e l’articolo 104 della Costituzione, prevede l’elezione diretta del Presidente della repubblica e ne modifica le attribuzioni. Ne deriverebbe un modello molto simile a quello francese, con il Presidente della Repubblica che coordina la politica del Governo.
Secondo la nostra proposta, il Presidente della Repubblica:
- è il Capo dello Stato
- presiede il Consiglio dei ministri
- dirige la politica generale del Governo
- mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo, promuove e coordina l’attività dei ministri, con il concorso del primo ministro
- può revocare i ministri, su proposta del Primo ministro
- rappresenta l’unità della Nazione e ne garantisce l’indipendenza
- vigila sul rispetto della Costituzione
- assicura il rispetto dei trattati e degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia a organizzazioni internazionali e sovranazionali
- rappresenta l’Italia in sede internazionale ed europea
- non presiede più il CSM (considerato il suo nuovo ruolo politico tale previsione si pone in contrasto con l’indipendenza della magistratura)
L’elezione del Presidente della Repubblica:
- avviene a suffragio universale e diretto
- può essere eletto ogni cittadino che abbia compiuto quarant’anni e goda dei diritti civili e politici
- l’elettorato attivo è riconosciuto a tutti i cittadini che hanno compiuto la maggiore età
- il mandato dura cinque anni e la rielezione è consentita una sola volta
Alcuni atti sono espressamente sottratti alla controfirma ministeriale:
- la nomina del Primo ministro
- l’indizione delle elezioni delle Camere e lo scioglimento delle stesse
- l’indizione dei referendum nei casi previsti dalla Costituzione
- il rinvio e la promulgazione delle leggi
- l’invio dei messaggi alle Camere
- le nomine che sono attribuite al Presidente della Repubblica dalla Costituzione e quelle per le quali la legge non prevede la proposta del Governo
Il Presidente del Consiglio diviene formalmente il “Primo ministro”
Viene introdotto l’istituto della sfiducia costruttiva:
- la sfiducia può essere votata da ciascuna Camera
- la mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera, è votata per appello nominale e per essere approvata deve essere votata dalla maggioranza assoluta dei suoi componenti
- la mozione di sfiducia deve essere motivata e contenere il nome del successore del Primo ministro in carica
- il Governo formato dopo la mozione di sfiducia deve presentarsi alle Camere per ottenerne la fiducia entro cinque giorni dalla sua formazione
La disaffezione verso la politica e la scarsa fiducia verso la macchina amministrativa sono la rappresentazione plastica della crisi di un sistema autoreferenziale di cui i cittadini non si sentono più parte. Non è più rimandabile un intervento di riforma della Pubblica Amministrazione, per correggerne i difetti, valorizzarne le competenze, restituirle la sua imprescindibile funzione, in modo che i cittadini possano tornare a sentirsi parte integrante di uno Stato più snello e meno burocratico, vicino alle persone e non ostile.
Nonostante le enunciazioni di principio, di fatto esiste tuttora un palese e notevole squilibrio nei rapporti tra PA, “parte forte”, e cittadino, “parte debole”.
Nell’ambito di ogni rapporto tipo cittadino-PA (si pensi agli interventi edilizi, alle autorizzazioni per l’apertura e il funzionamento di imprese ed esercizi commerciali, all’assegnazione delle case popolari, ai servizi per i disabili, agli oneri fiscali) gli errori dell’amministrazione per lo più non sono né sanzionabili né risarcibili, e quindi molto frequenti (tanto nessuno rischia nulla); gli errori dei cittadini, spesso solo presuntamente inadempienti, sono invece pregiudizievoli e molte volte irreparabili.
Così i ritardi della PA alla fine sono sempre giustificati, perché i termini per il pubblico sono per lo più ordinatori, mentre i ritardi dei privati sono fatali, perché per i cittadini i termini sono perentori e il loro mancato rispetto comporta la decadenza dai diritti o comunque gravi penalizzazioni.
Per non parlare dei soldi da dare a qualsiasi titolo alla PA: se l’ente pubblico sbaglia nella richiesta o chiede più del dovuto non gli succede nulla, perché ha la presunzione della ragione dalla sua parte. Il cittadino che prova a dimostrare il contrario deve affrontare spese legali mostruose e tempi lunghissimi e, anche in caso di accertamento dell’errore della PA, in genere non recupera neppure le spese. Figuriamoci il danno. La bilancia va ritarata, il doppiopesismo è ingiusto e ingiustificato.
Nonostante le previsioni normative e le dichiarazioni di intenti, le PA lavorano e detengono la maggior parte delle pratiche con sistema cartaceo. Ciò rallenta la macchina amministrativa, complica il passaggio di consegne tra il personale, agevola fatti corruttivi e favoritismi, comporta rischi di smarrimento e deterioramento, consente lo scaricabarile delle responsabilità e impedisce il controllo del flusso procedimentale e comunicativo. E, di riflesso, obbliga spesso i cittadini a recarsi personalmente presso le amministrazioni per ogni banale incombenza, per lo più in orari proibitivi per chi lavora e con file scomode e infinite da affrontare, ma soprattutto li espone ad una pluralità di giri da fare, perché le pratiche sono frammentate tra più uffici.
La digitalizzazione non è più rimandabile ed è l’unica soluzione per garantire efficienza, trasparenza, legalità, giustizia sociale.
Da quest’anno tutte le amministrazioni sono obbligate a redigere annualmente un programma unitario di gestione che riguarda assunzioni, performance, misure di prevenzione della corruzione ecc., il tutto orientato verso il conseguimento del cosiddetto “valore pubblico”. Per FdI, l’obiettivo da perseguire incrementalmente per maturare valore pubblico è prima di tutto l’efficientamento, che deve essere strategicamente pianificato e misurato in termini di risultato.
La sfida deve essere quella di riorganizzare le risorse disponibili per ottenere migliori risultati nel perseguimento degli scopi istituzionali di ogni ente. Ciò non vuole dire tagli lineari agli sprechi, ma reingegnerizzazione di processi e funzioni, studio e promozione di modelli organizzativi per fare di più con minore sforzo. E ci sono molti margini di efficientamento nei nostri sistemi pubblici, ormai datati, statici, senza visione e approccio manageriale, spesso demotivanti per il personale pubblico che vede mortificate le proprie competenze e il proprio impegno.
Il nostro impianto normativo di regolamentazione delle procedure pubbliche è arrivato all’implosione.
Nel tempo si sono sovrapposte, incrociate e stratificate disposizioni su disposizioni, al punto che nessuno le conosce tutte e vengono applicate quelle che più convengono a seconda del caso e del soggetto che le richiama. Ciò con palesi disparità di trattamento, rischi corruttivi, difficoltà di movimento per cittadini e imprese, insomma tutto quel che fisiologicamente consegue all’incertezza del diritto.
Come se non bastasse, è poi invalsa la propensione ad estendere la disciplina anche a ciò che non è necessario regolamentare, con un irrigidimento del sistema e con una moltiplicazione di passaggi, adempimenti, previsioni che scaricano gli oneri sul privato, costretto a ricorrere a costose consulenze, e riducono la responsabilità del pubblico, rallentando se non paralizzando la macchina.
Ciò ha finito per rendere il sistema funzionante e accessibile solo per chi pratica scorciatoie ricorrendo a illeciti, oppure per chi dispone di denaro da spendere per farsi aiutare ad ottenere ciò a cui avrebbe diritto gratuitamente.
Un sistema così, oltre ad essere profondamente ingiusto, non è attrattivo né per i cittadini né per le imprese, italiane e non.
La ricetta è la razionalizzazione, la riduzione, la semplificazione linguistica, il contenimento di tutte le norme; l’alleggerimento delle incombenze; l’ampliamento del sistema di autocertificazioni e di autoasseverazioni con controlli postumi sostanziali e non formali; la premialità per i dipendenti pubblici che abbandonano il “no sistemico” e in modo costruttivo moltiplicano i risultati, vincendo la paura (o la pigrizia) della firma.
Ferma restando la necessità di semplificazione, per aprire un’attività sono richiesti svariati adempimenti e accorgimenti, a garanzia dei livelli di qualità e sicurezza. I cittadini italiani hanno nel loro Dna la propensione al lavoro artigianale e al commercio, ma troppo spesso vengono scoraggiati da costi, rischi e complessità (e per la concorrenza sleale degli extracomunitari che operano in violazione di tutto perché sostanzialmente non perseguibili). E allora, invece di formare e pagare navigator per inserire nel mondo del lavoro i percettori del reddito di cittadinanza, sarebbe opportuno dotare le amministrazioni di tutor che supportino chi vuole avviare un’attività, con accompagnamento negli adempimenti burocratici, nell’accesso ai finanziamenti, nell’ottenimento di sgravi fiscali e vantaggi assunzionali. Soprattutto dopo il disastro delle chiusure figlie del lockdown e in un Paese in cui i giovani Neet sono in un numero inaccettabile, lo Stato deve sostenere il cittadino che vuole essere protagonista del rilancio economico.
Sebbene esistano chiari obblighi normativi, la maggior parte delle amministrazioni è in forte ritardo nei pagamenti delle forniture e nell’assegnazione di contributi ai beneficiari dei finanziamenti pubblici. Ciò diventa un ostacolo insormontabile per chi non ha una solidità finanziaria alle spalle, tipica solo dei grossi gruppi e di coloro che per il loro peso hanno apertura di credito presso le banche (al netto di chi si alimenta con il malaffare). Quindi restano fuori sempre gli stessi, i piccoli e i nascenti. Il sistema pubblico deve garantire tempestività nell’erogazione di quanto dovuto per interrompere questo scoraggiante fenomeno.
Nel sistema dei contratti pubblici la meritocrazia non esiste. I parametri di scelta soggettiva sono legati solo alla solidità economica, alla quantità di lavoro svolto per la PA e alla grandezza dell’impresa in termini di mezzi e personale. A differenza di quello che accade nel mercato privato e, banalmente, nell’economia domestica, non rilevano competenze, professionalità e affidabilità. Se non si premia il merito, arrivano sempre gli stessi, che peraltro non hanno alcun interesse a fare bene o comunque meglio.
Allora, alla stessa stregua con cui il mercato privato premia nella concorrenzialità gli imprenditori che lo meritano, anche in quello pubblico occorre rilevare e rendere noti i comportamenti virtuosi degli appaltatori attribuendo loro uno specifico rating.
Il nostro sistema di affidamento degli appalti pubblici ha la stessa matrice comunitaria degli altri Stati membri, eppure è il più complicato da attuare. Peraltro, a fronte di tanta complessità, non si riscontra un beneficio in termini di risultati: opere incompiute, cantieri infiniti, corruzione, elevati costi medi sostenuti dalle PA, contenziosi costosi e numerosi, servizi ai cittadini di qualità spesso discutibile, frequenti affidamenti in deroga (quando non in violazione) delle leggi.
Il tutto in un sistema che inneggia alla concorrenzialità, ma che di fatto rimane nell’accessibilità di pochi.
Servono più rigore e organizzazione nella programmazione, anche congiunta, degli appalti; gare concentrate e svolte da amministrazioni qualificate e responsabili dell’intero processo; partecipazione agevolata per le imprese, senza oneri di produzione documentale su informazioni già in possesso dell’ente e abolizione dei costi delle Soa (certificazioni ulteriori e obbligatorie per partecipare agli appalti di lavori); tempi brevi e certi di procedure, affidamenti, stipula e avvio dei contratti; assegnazione semplificata dei contratti di valore inferiore alla soglia comunitaria e rinnovabili entro il valore di detta soglia, con prevenzione dei conflitti di interessi e controlli rigorosi sulla corretta e completa esecuzione.
Il nostro sistema di affidamento degli appalti pubblici ha la stessa matrice comunitaria degli altri Stati membri, eppure è il più complicato da attuare. Peraltro, a fronte di tanta complessità, non si riscontra un beneficio in termini di risultati: opere incompiute, cantieri infiniti, corruzione, elevati costi medi sostenuti dalle PA, contenziosi costosi e numerosi, servizi ai cittadini di qualità spesso discutibile, frequenti affidamenti in deroga (quando non in violazione) delle leggi.
Il tutto in un sistema che inneggia alla concorrenzialità, ma che di fatto rimane nell’accessibilità di pochi.
Servono più rigore e organizzazione nella programmazione, anche congiunta, degli appalti; gare concentrate e svolte da amministrazioni qualificate e responsabili dell’intero processo; partecipazione agevolata per le imprese, senza oneri di produzione documentale su informazioni già in possesso dell’ente e abolizione dei costi delle Soa (certificazioni ulteriori e obbligatorie per partecipare agli appalti di lavori); tempi brevi e certi di procedure, affidamenti, stipula e avvio dei contratti; assegnazione semplificata dei contratti di valore inferiore alla soglia comunitaria e rinnovabili entro il valore di detta soglia, con prevenzione dei conflitti di interessi e controlli rigorosi sulla corretta e completa esecuzione.
Da anni si vive nel paradosso per cui le imprese vantano crediti non pagati dalle PA e, di conseguenza, non hanno liquidità per pagare tasse e contributi e sono per questo escluse dalla partecipazione a nuovi appalti. Questo circolo vizioso deve essere interrotto. La PA deve consentire una reale ed efficace compensazione tra crediti e debiti vantati nei confronti di più enti pubblici, mettendo fine al gioco delle parti, ed evitando che le imprese rimangano schiacciate da questa inaccettabile stortura del sistema.